La Critica
Nelle tempere di Vincenzo De Moro emerge subito un asprezza, un sospetto di ostinatezza ostile che derivano non tanto dall’intervento devastante e accatastato del gesto, nell’intero suo percorso, quanto da una sua accelerazione, che pare contenga già in se il timore dell’interruzione, la fretta di levar via il pennello prima del tempo dovuto. Una figura ricorrente, il cerchio, appare allora come il vuoto di una corona strappata di lì. Ne rimane, sghemba e spinosa, la traccia di un intenzione. Gli avanzi, risentiti, di una estirpazione sbrigativa.
La pittura di Vincenzo De Moro procede così come per anticipazioni di mancamenti, parole rimangiate. Un modo severo e precipitoso di mordersi la lingua cento volte prima di aprir bocca. Gli strappi gestuali, assiepandosi, si convertono in urti, in divergenze, in slanci contraddetti; allora la giustezza, la sapiente appropriatezza del colore, sempre esposto, a volte persino scorticato per il troppo scoprirsi, per il troppo offrirsi, pare proporre una tardiva riparazione, una qualche tregua insoddisfatta.
Questo suo colore, così spesso sontuoso e meditato, rappresenta allora come il rimorso per il suo continuo rimandare, questa pratica di incompiutezza, questa necessità di “sfrondare”. Il bicchiere grave dell’ebbrezza, traboccante, fu levato in alto; rimase sulla tovaglia il suo segno semicircolare, mal precisato, a registrare l’eccesso e lo smarrimento. Accade che l’azione dell’intervento sia pari a quella dell’interruzione. Si assiste allora alla ripresa di una festa, fin allora intorpidita.
D’altronde questo sottrarsi si riconduce alla tipica perplessità di un pensiero incerto sul termine: opera compiuta. L’interrotto, il sottratto, propongono anch’essi le ragioni di un loro continuità, un loro compimento. Ogni apparizione potrebbe coincidere, convulsamente, con la sua scomparsa. Vincenzo De Moro ha inteso questo contraddirsi, queste sconnessioni, come una condizione a cui non può sottrarsi. La pittura, a momenti, è dolentemente sottintesa, ma non dovrà mai essere un giardino da cui si venga cacciati.
Toti Scialoja
Artista, scrittore, scenografo, insegnante e direttore dell’Accademia di Belle Arti di Roma
Quando un verde timbrico sconfina in un arancio e un grigioturchino filtra velando un bianco di titanio altrimenti stridente, non si ha più bisogno di giocare di rimando con un contorno, col margine definito di una figura perché non è di mimesi che si tratta ma di contenuti carpiti all’essenza del colore. Se una coscienza formale interviene comunque irrompe attraverso una figurazione surreale, irrefrenabilmente ironica, stravolta dal singulto dell’automatismo.
…sicuramente la luce di un certo meridione originale e originario riverbera nei timbri accesi delle ultime opere come l’appagamento attico in una ritrovata dionisiaca felicità.
Un ludo cromatico che non agita ma placa e armonizza il colore.
Si potrebbe paradossalmente affermare che la pittura di De Moro ripristini un non più nostalgico moto naturalistico del colore, la sua incontenibile solarità; una calda luce lo rischiara come generata dal di dentro per affiorare innescando una tenace tensione in superficie. In questo transito d’energie il gesto si dissolve in una non-forma che straripa a volte e a volte si ricompone.
[…] I luoghi a cui ricorre Vincenzo De Moro che pure assumono l’aspetto fisico del colore quindi della pittura, sono luoghi dell’anima. Spazi dispiegati su due dimensioni per tornare ad abitare alvei già popolati chissà quanto tempo prima.
Non a caso nei titoli la variante è minima, le torri, oggettivi luoghi di avvistamento e le domus, lembi di terra ormai circoscritti che diventano abitabili;
Nel solco degli insegnamenti, Vincenzo, riscatta l’assunto concettuale che vede il pittore e la sua azione come termini unici dell’affermazione del proprio esistere, del proprio esserci.
ll colore, al pari della forma, è riportato alle sue gamme primarie, la composizione una rete di linee che incrociano cadenzate, ordinate secondo il dictat dell’angolo retto.
Salendo sulle sue torri, Vincenzo, riscopre un territorio che dal basso appariva, per via del limite ottico, disorganizzato, disgregato in frammenti visuali resi per sovrapposizione, i colori che si contaminavano per commistura dall’alto, ora, con più lucida chiarezza, i campi e le colture rivelano invece un ordine, un rigore spontaneo dei contorni, un’infallibile geometria dove l’umanità, con serena accettazione, sceglie ancora di abitare.
La pittura è il campo in cui l’umano trova ancora dimora, in cui l’azione dell’uomo non è necessariamente affanno ma diretta accettazione di un imprevedibile ordine spazio temporale.
Questo ambito è l’unico affidatoci per elezione col compito dovuto di renderlo costantemente fertile.
Carlo Serafini
Artista, Scenografo, Costumista
Sergio Rossi,
Critico d’arte e insegnante di storia dell’arte moderna presso l’Università La Sapienza di Roma
(dal Catalogo della mostra Sconfinamenti 2008)
Ciò che dicono i suoi quadri, non lo si racconta, lo si vive.
Quando ci si pone davanti ad un dipinto di Vincenzo si deve essere pronti ad affrontare un viaggio verso il nostro io, liberandoci dalla nostra “concretezza” ed allora i colori si imprimono nella mente, penetrano l’anima e di istinto gli occhi si socchiudono quasi a volere imprigionare i colori dentro di noi, a non farli scappare via.
I colori ci inondano, ci pervadono e straripando ci guidano in quella dimensione che ognuno di noi fa fatica a riconoscere, a sentire, a vivere ma che è dentro di noi.
Attraverso i colori di Vincenzo sentiamo ciò che siamo, ma che mai riusciremo a individuare, specificare o esprimere attraverso il nostro linguaggio.
Anna Maria Fazzari
Avvocato e presidente dell’Associazione Culturale “Abbadia” S.Martino
(dal catalogo della mostra Luce e colori di un artista di San Martino)
Lo studio è illuminato da una luce calda, che rischiara i contorni delle opere e ne ravviva i colori.
Questa stessa luce che oltreppassando le vetrate dell’atelier si posa sui materiali dell’artista, un vasetto ricolmo di pennelli, delle tele arrotolate, pigmanti naturali e terre destinati a trasformarsi in pittura.
Ed è qui, nel suo studio romano che Vincendo De Moro svela le sue opere col gesto accorto di chi mostra un album di immagini intime che sembrano fino al momento rimaste segrete perfino a lui stesso.
Vincenzo De Moro riafferma con coraggio l’autonomia della pittura riscattandola attraverso la lezione scialojana, riprende le vie dell’espressionismo astratto americano per confermare senza remore l’autenticità di un azione autonoma del fare pittura, monda da concettualismi.
Si potrebbe paradossalmente affermare che la pittura di De Moro ripristini un non più nostalgico moto naturalistico del colore, la sua incontenibile solarità, una calda luce lo rischiara come generata dal di dentro per affiorare innescando una tenace tensione in superficie. In questo transito d’energie, il gesto si dissolve in una non-forma che straripa a volte e a volte si ricompone.
Ludovico Pratesi
Critico d’arte di “La Repubblica”